Lo sport può creare speranza

dove prima c'era solo

disperazione. È più potente

dei governi per abbattere

le barriere del razzismo.

Lo sport è capace

di cambiare il mondo.

 Nelson Mandela

 

 

 Non crediate a quelli che

vi dicono che il mondo si

divide tra vincenti e

perdenti, perché il mondo

si divide soprattutto tra

brave e cattive persone,

questa è la divisione

più importante.

Poi tra le cattive persone

ci sono anche dei vincenti,

purtroppo, e tra le brave

persone, purtroppo, ci

sono anche dei perdenti.

 J. Velasco  

 

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lo SPORT AL FEMMINILE NELLA SOCIETÀ

     Lo sport ‒ sia esso professionale o amatoriale ‒ è un fenomeno che coinvolge, per lo meno in tutto il mondo occidentale, uomini e donne. La storia dello sport tuttavia è stata a lungo caratterizzata da una netta predominanza maschile e il campo delle attività sportive è, a tutt'oggi, segnato da profonde differenze di genere: gli uomini partecipano più delle donne alla pratica sportiva e, al contempo, gli sport maschili sono più rilevanti sia economicamente sia culturalmente.

 

     Nonostante queste evidenti differenze, per molto tempo le scienze sociali non si sono interrogate sulle disuguaglianze di genere in relazione alla pratica sportiva. Le differenze tra il coinvolgimento maschile e quello femminile nello sport venivano riportate a differenze originarie e naturali fra maschi e femmine: forti, competitivi e attivi i primi; deboli, remissive e passive le seconde. In altri termini, sportivi i primi, sedentarie le seconde. L'argomentazione che gli sport sono un terreno naturale per i maschi, date le loro caratteristiche fisiche, è ancora ampiamente condivisa nelle nostre società.

 

     Nell'ambito della sociologia e della storia dello sport, le differenze di genere vengono oggi considerate come alcune delle relazioni di potere che innervano il campo sportivo e ne fanno una sfera di conflitto sociale più o meno sotterraneo. Al prepotente ingresso del genere negli studi sullo sport ha ovviamente contribuito anche il pensiero femminista insistendo sul fatto che le differenze tra uomini e donne, che strutturano alcune fra le più importanti distinzioni all'interno dell'universo sportivo, sono socialmente costruite.

 

     Più in generale, sin dal suo emergere il pensiero femminista ha concepito il corpo femminile come uno dei luoghi chiave dell'oppressione subita dalla donna. Le prime femministe-socialiste cercavano di controbilanciare l'insensibilità al genere di gran parte della scienza sociale classica mostrando le connessioni fra capitalismo e patriarcato, analizzando cioè la divisione sessuale del lavoro e le ideologie che sottostanno al confinamento della donna nella sfera domestica.

 

     Negli studi sullo sport il femminismo si è inizialmente espresso mediante una serie di ricerche che hanno voluto mostrare la discriminazione cui sono soggette le donne anche nella sfera sportiva e del tempo libero. Le opere più recenti tendenzialmente affrontano la questione del corpo in modo più diretto, tematizzando la costruzione sociale del femminile, esaminando le prassi che confinano le donne a una vita incentrata o, comunque, fortemente improntata, sulla cura e l'abbellimento del corpo. Si tratta di pratiche relative alla presentazione del corpo (dal trucco all'acconciatura dei capelli) che vengono poste in atto anche dalle atlete professioniste impegnate ai più alti livelli in sport ritenuti “maschili”. Anzi tali pratiche sono di grande rilevanza per mantenere una distinzione binaria maschio/femmina, proprio nel momento in cui le donne si stanno minacciosamente affermando in universi tradizionalmente maschili, come appunto quelli dello sport agonistico e professionistico, mediante prestazioni atletiche in vertiginosa crescita in tutti i campi.

 

     Negli studi sullo sport e sulla storia dello sport si è teso sempre più a mostrare come le differenze “naturali” fra uomini e donne siano in realtà state iscritte nei corpi anche mediante la pratica sportiva, attraverso, per es., la canonizzazione di regole differenti per le versioni femminili degli sport più tradizionalmente maschili e lo sviluppo di attività sportive femminili, tese a sottolineare e a riprodurre caratteristiche fisiche più tipicamente associate alla femminilità, come grazia, armoniosità dei movimenti, leggerezza ecc. Così molti studiosi sono passati dal prendere in considerazione e analizzare la pratica sportiva relativamente alle sole esperienze maschili, al riconoscimento del ruolo delle donne nello sport e della necessità dunque di dedicare loro uno spazio specifico, riconoscendo che occorre andare oltre le differenze tra uomini e donne, occupandosi invece delle relazioni di potere che strutturano le definizioni stesse di maschilità e femminilità.

 

     La femminilità stessa delle atlete che maggiormente sfidano i confini simbolici del genere, praticando attività tipicamente maschili, nelle quali bisogna avere corpi particolarmente muscolosi, grandi, forti ecc. ‒ le lanciatrici del peso per es. ‒ viene spesso messa in discussione. Si tratta di distinzioni tanto salde e radicate quanto sociali e convenzionali, legate fra l'altro alla specifica storia del complesso delle attività sportive in ciascun paese. Ciò è ben illustrato, per es., dal fatto che uno sport come il calcio femminile possa oggi godere di una forte popolarità negli Stati Uniti, dove esiste una scarsissima tradizione al maschile, e invece stenti ad affermarsi in Europa, tradizionale culla del calcio maschile, dove calcio e immagini di maschilità sono appunto fortemente associate.

 

     L'organizzazione sociale dello sport fornisce, mediante le sue immagini, ideologie e strutture, un meccanismo atto a mantenere e a legittimare nella società una particolare organizzazione del rapporto fra i sessi, tendendo a rafforzare la stratificazione sociale basata sul genere. Se per i giovani maschi lo sport costituisce ancora un rito di passaggio quasi obbligato, incarnando caratteristiche maschili idealizzate come la competizione, l'aggressività e la lealtà, tradizionalmente, e ancora fino al secondo dopoguerra, l'attività fisica e sportiva era considerata nemica della femminilità: agli occhi della maggior parte delle popolazioni occidentali, le donne atlete sono apparse a lungo come una deviazione dalla femminilità, una virilizzazione anomala, tanto che persino la correttezza dei loro orientamenti sessuali è stata messa in discussione.

 

     Lo stereotipo negativo riguardante le donne impegnate in attività sportive in effetti arriva a interessare la loro sessualità, e l'omofobia che ne consegue sembra limitare le possibilità di solidarietà fra donne. L'idea che l'attività sportiva potesse peggiorare e mascolinizzare l'aspetto delle donne praticanti e quindi intaccare il giusto rapporto fra i sessi, soprattutto nella sfera sessuale ‒ promuovendo appunto tendenze omosessuali ‒ si è sicuramente configurata come uno dei principali deterrenti alla diffusione dello sport femminile con cui molte atlete si trovano spesso a dover negoziare.

 

     Indubbiamente all'interno della sfera sportiva, nelle diverse strutture, nei club che organizzano attività agonistiche e non, si è a lungo annidato un certo sessismo. Anche se non si può non ammettere che vi è stata, nel 20° secolo e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, una crescente “femminilizzazione” dello sport, che ha implicato una sempre maggiore partecipazione femminile, una progressiva riduzione degli sport riservati solo agli uomini, lo sviluppo di sport femminili anche a livello olimpico ecc., tuttavia ancora adesso sono pochissime le attività sportive (come per es. la vela), in cui non esistono categorie distinte per genere, e gli atleti maschi e gli sport maschili sono tuttora al vertice delle gerarchie che strutturano il campo sportivo.

 

Una partecipazione crescente

     Poiché il corpo è il più evidente simbolo della differenza tra uomini e donne e lo sport è un'arena in cui esso viene messo in gioco in modo specifico, lo sviluppo dell'attività sportiva fra le donne è indubbiamente un importante segnale di emancipazione femminile. Laddove lo sforzo atletico, tradizionalmente associato alla virilità, diviene a poco a poco disponibile anche alle donne, queste sembrano sottrarsi alla femminilità più tradizionale che le voleva passive e sedentarie, e sembrano poter godere di nuovi spazi per la sperimentazione di un diverso uso del corpo e la costruzione di nuove forme di identità.

 

     Certo, lo sviluppo dello sport femminile deve fare i conti con diffusi atteggiamenti che considerano le attività fisico-sportive come essenzialmente e naturalmente domini maschili. Per le specifiche caratteristiche corporee, legate in modo particolare al loro ruolo nella riproduzione umana, e quindi alla gestazione e all'allattamento, le donne sono state considerate inadatte alle attività fisiche che richiedono un certo impegno. Ancora ai primi del Novecento, la maternità, concepita come la funzione più naturale e moralmente adeguata per le donne, è vista come alternativa alle attività fisiche sportive.

 

     Nonostante ciò, con il consolidamento dello sport moderno le donne iniziano la propria ascesa, prima incerta e poi sempre più vistosa, nell'universo sportivo. Benché nell'Ottocento le prime femministe non prendano in considerazione lo sport nelle loro attività e riflessioni a favore delle donne, a partire dagli ultimi due decenni del 19º secolo si registrano alcuni importanti sviluppi. Verso la fine dell'Ottocento, per es., vi è in Inghilterra una vera e propria esplosione di palestre rivolte alle donne di classe media dove, accanto a massaggi e diete, si possono praticare alcune forme di ginnastica medica.

 

     Se lo sport moderno si consolida nelle scuole private inglesi maschili, la graduale estensione dell'educazione superiore alle donne, spesso in istituzioni specifiche a loro dedicate, fa sì che anche lo sport femminile cominci a diffondersi sia pure fra mille difficoltà. L'educazione fisica e la ginnastica hanno un ruolo ambiguo rispetto all'emancipazione femminile e alla partecipazione femminile alle attività sportive: esse si configurano indubbiamente come occasioni di sviluppo fisico e mentale per la donna, e tuttavia la assoggettano a una disciplina rigida e non competitiva che incorpora idee tradizionali su ciò che è appropriato per una signora, sull'autocontrollo, la modestia, il decoro e la morale.

 

     In generale, le forme di ginnastica che si sviluppano nell'Ottocento, sia in Europa sia negli Stati Uniti, tendono ad accrescere l'utilità del corpo, a migliorarne l'igiene, nel tentativo di temprare la morale pubblica e di forgiare cittadini migliori. Non sempre però a una capillare diffusione di società ginnastiche corrisponde un'ampia diffusione dell'attività ginnica nella popolazione, soprattutto fra le donne. In Italia per es., tra fine Ottocento e inizi Novecento, si fa molta propaganda della ginnastica ma si pratica ben poca attività fisica.

 

     La genesi storica della ginnastica si differenzia dunque fortemente da quella degli sport in senso stretto. Molti sport, sia di squadra, come il rugby o il calcio, sia individuali, come l'atletica leggera, si sono andati differenziando dalle attività fisiche popolari nelle scuole riservate alle élite borghesi, dove hanno spesso avuto la funzione di forgiare il carattere dei futuri leader politici ed economici, educandoli a un'etica del fair play tra eguali, del governo di sé e del comando e promuovendo valori come la competizione, la forza e l'aggressività. Nella storia della partecipazione femminile allo sport, la ginnastica e l'educazione fisica hanno un peso molto rilevante perché è attraverso la mediazione di queste forme di attività fisica legate a finalità salutiste, piuttosto che ludiche o competitive, che le donne si preparano ad avvicinarsi, sia pur lentamente, allo sport in senso stretto.

 

     Anche nel caso della storia dello sport femminile però si registrano marcate differenze tra classi sociali, per certi versi analoghe a quelle che strutturano la storia dello sport maschile. Lo sport competitivo vero e proprio si diffonde più rapidamente fra le élite e le classi più favorite. Varie forme di ginnastica svedese con la loro enfasi sulla salute, la cura del corpo e la disciplina e la loro assenza di competizione e rivalità atletica, hanno grande diffusione nelle scuole e nei collegi femminili di tutta Europa. Ma la ginnastica svedese e le sue declinazioni si propongono come l'antitesi del gioco e come forme razionalizzate di movimento strumentale: si tratta di attività che sottolineano gli sforzi, i sacrifici e la rettitudine morale, piuttosto che di attività ludiche che rappresentano la libertà del corpo o il piacere della socialità.

 

     Eppure, nonostante la sua ambivalenza e il suo rifiuto della competizione, l'educazione fisica femminile a partire dalle ultime due decadi dell'Ottocento si configura per lo più come un prerequisito per la diffusione dell'attività sportiva fra le donne, soprattutto in Europa.  La maggioranza degli sport femminili, nelle loro forme istituzionali, si sviluppa infatti nelle scuole e nei collegi femminili, e gli insegnanti di educazione fisica svolgono, a volte consapevolmente a volte loro malgrado, un ruolo importante per rendere accessibile l'attività sportiva alle donne. La diffusione degli sport femminili è segnata, soprattutto sul finire dell'Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento, da quel riduzionismo biologistico che dipinge le donne come fisicamente fragili. Gli sport che si sviluppano per primi fra le donne, in Inghilterra, culla dello sport moderno, sono quindi non solo quelli diffusi tra l'aristocrazia, ma anche quelli che non entrano in diretto conflitto con l'immagine vittoriana della femminilità: il tiro con l'arco, per es., che pur essendo un'attività competitiva, viene svolto in occasioni fortemente cerimoniali.

 

     Il processo di diffusione dello sport fra le donne è segnato da una continua e difficile negoziazione con le barriere anche e soprattutto simboliche e culturali che relegano le donne nella sfera domestica, al ruolo di madri. In Italia, Francia e Germania, come pure in Inghilterra e negli Stati Uniti, si registrano numerosi dibattiti fra coloro che salutano con entusiasmo la prospettiva della diffusione delle attività sportive fra le donne e coloro che invece temono che le atlete agiscano come elementi di disordine sociale e decadenza morale e fisica nel paese. Pur divenendo l'oggetto di una vera e propria moda, uno sport come la bicicletta, per es., non è immediatamente accolto né ha una rapida e indiscussa diffusione come attività competitiva. In Inghilterra già dal 1880, le donne sono ammesse nell'associazione nazionale di cicloturismo, ma è solo nel 1916 che tale associazione consente la prima gara di ciclismo femminile.

 

     Vicende e storie analoghe segnano lo sviluppo e la diffusione tra le donne del tennis, del golf e del nuoto. Agli inizi del Novecento le donne di classe media e medio-alta iniziano sempre più spesso a partecipare alle attività sportive, ma lo fanno negoziando con l'immagine di femminilità tradizionalmente attribuita loro, e quindi con severe limitazioni rispetto al codice del vestire, alla durezza degli esercizi, e soprattutto all'etica della competizione, che per molto tempo viene considerata tipica del sesso forte.

 

     Negli anni fra le due guerre mondiali, lo sport al femminile ha comunque un grande impulso e, tra mille difficoltà, la partecipazione delle donne ai Giochi Olimpici si fa più importante. Quando Pierre de Coubertin organizza le prime Olimpiadi moderne ha indubbiamente in mente una competizione fra soli uomini, dove essi possano dar prova, di fronte a un pubblico anche femminile, di forza, coraggio e atletismo. Eppure, nonostante l'opposizione di de Coubertin, le donne sono incluse, con il golf e il tennis, già alle Olimpiadi di Parigi del 1900. Occorre però aspettare il 1912, per vedere, fra non poche rimostranze, il nuoto femminile fare il proprio ingresso in ambito olimpico.

 

     Nonostante la discriminazione le donne continuano ad ampliare la propria presenza olimpica anche grazie alla pressione delle molte società sportive femminili europee. La partecipazione femminile ai Giochi Olimpici non offre tuttavia una indicazione inequivocabile del superamento di atteggiamenti tradizionalisti e sessisti. Le dichiarazioni della vincitrice dei 100 m dorso delle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles, Heleanor Holm, mostrano bene tutta l'ambiguità di cui si fanno ancora interpreti anche le atlete di maggior successo: Holm dichiara infatti che rinuncerebbe immediatamente al nuoto se e quando i suoi muscoli cominciassero ad assumere un aspetto troppo maschile.

 

     I regimi totalitari che fioriscono tra le due guerre, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania in particolare, hanno anch'essi un atteggiamento ambivalente nei confronti della partecipazione femminile allo sport. Certo l'attività fisica sotto forma di ginnastica è chiaramente uno strumento in più per governare e disciplinare la popolazione e promuovere le proprie ideologie. Durante il fascismo, per es., viene istituita l'Opera Nazionale Balilla che arriva a esercitare un vero e proprio monopolio sulle attività ginnico-sportive. Accanto ai grandi saggi ginnici collettivi che impegnano più o meno direttamente tutti i giovani e le giovani italiane e che hanno un'ovvia funzione politico-propagandistica e, per i ragazzi, di preparazione premilitare. Le giovani donne, dal canto loro, sono incoraggiate a svolgere anche attività propriamente sportive, come il nuoto, e a competere nel tiro con l'arco.

 

     Il regime fascista rimane comunque tendenzialmente ostile alle competizioni atletiche femminili in pubblico: alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932, anche per l'opposizione di papa Pio XI, nella squadra nazionale italiana non figurano donne, laddove il team maschile miete numerosi e significativi successi. Le italiane si prendono la rivincita alle successive Olimpiadi di Berlino, dove l'unica medaglia d'oro di tutta la spedizione azzurra è vinta da Ondina Valla negli 80 m a ostacoli. Ponendosi non solo come un fiore all'occhiello del regime ma anche come una potenziale sfida alla supremazia maschile da esso promossa, lo stesso successo della Valla ottenne reazioni tutt'altro che univoche nei circoli fascisti. In effetti, il fascismo, soprattutto una volta consolidato il suo potere e anche per rispondere ai severi moniti della Chiesa cattolica, tende ad avere un atteggiamento profondamente ambiguo rispetto allo sport femminile: alcune atlete eccezionali vengono incoraggiate poiché possono dar lustro al regime a livello internazionale, ma si ritiene che per la maggioranza delle donne possa bastare un'educazione fisica salutista, l'unica giudicata davvero compatibile con l'immagine relativamente tradizionalista della donna e delle sue funzioni che il regime sostiene.

 

     Durante la Seconda guerra mondiale le donne devono spesso assumere ruoli precedentemente riservati solo agli uomini ‒ nella sfera sportiva rimane celebre l'esperienza del baseball femminile negli Stati Uniti che raggiunge un'immensa, anche se breve, popolarità, ma è soprattutto dopo gli anni Sessanta e grazie al movimento femminista che lo sport femminile si consolida e dà segnali di grande ascesa. Certo questa tendenza non va esagerata né può essere indicata, anche in questo caso, come parte di un progresso lineare: negli anni Cinquanta e Sessanta vi sono ancora numerosi oppositori dello sport femminile, che utilizzano non solo argomentazioni di carattere estetico, ma anche la classica antinomia maternità-sport. In breve tempo però si assiste a un rapido cambiamento di orientamento: già nei primi anni Settanta oltre un quinto delle liceali americane dichiara che vorrebbe essere ricordata per i propri successi sportivi e nello stesso periodo diversi studi mostrano che, non solo fra i ragazzi, ma anche fra le ragazze, praticare attività fisica e sportiva favorisce popolarità e successo sociale.

 

     Oggi molti studi confermano che le donne che svolgono un'attività fisica, anche non competitiva, tendono ad avere una maggiore stima di sé e a guardare al proprio corpo con accresciuta soddisfazione. A partire dagli anni Settanta e ancor più negli anni Ottanta, una simile tendenza è incoraggiata dalle politiche per le pari opportunità, che rendono legittimo e doveroso il coinvolgimento femminile nello sport nelle scuole. Un evento di grande impatto simbolico è, nel 1967, la partecipazione di Katherine Switzer alla Maratona di Boston: sino ad allora le donne erano escluse da questa gara, considerata un'attività troppo faticosa. Il caso della maratona illustra tuttavia molto bene il fatto che, quando le donne possono cimentarsi regolarmente nell'attività sportiva, presto raggiungono risultati sorprendenti.

 

     Nonostante esista ancora un certo divario tra i migliori tempi degli uomini e quelli delle donne, dagli anni Sessanta a oggi il record femminile di maratona è migliorato di oltre un'ora a fronte di un miglioramento del record maschile di 15 minuti circa. Rispetto a simili differenze nelle prestazioni si registrano, anche nell'ambito degli studi storico-sociali sullo sport, opinioni contrastanti. Per alcuni le diversità biologiche e fisiologiche sono fondamentali e insormontabili, per altri le prestazioni inferiori sono in larga parte dovute alla segregazione delle migliori atlete donne, costrette a gareggiare solo fra loro senza poter competere con i migliori atleti uomini. Le differenze fisiologiche tra uomini e donne, in effetti, non sempre sono a favore dei primi. In particolare, gli uomini, grazie a una maggiore quantità di testosterone e di massa muscolare, tendono a essere favoriti nelle attività che richiedono forza esplosiva, mentre le donne, grazie al tipo di metabolismo e alla maggiore quantità di grasso, sono più agevolate nelle attività di resistenza estrema, come è dimostrato dai risultati nella corsa su lunga o lunghissima distanza.

 

     I progressi e le restrizioni che caratterizzano la partecipazione delle donne alle Olimpiadi danno una indicazione chiara di come l'accesso delle donne allo sport sia ancora discriminato. Discipline che richiedono prove di forza e sforzi evidenti sono state inserite nel programma olimpico solo molto recentemente (per es. i 10.000 m piani nel 1988) e l'unico sport di contatto previsto per le donne rimane il judo, inserito nel 1992. Nonostante l'impressionante ascesa dello sport femminile, in termini sia di diffusione della pratica sportiva amatoriale sia di risultati a livello agonistico, esistono ancora, dunque, numerose barriere che in misura variabile e in modi diversi limitano la partecipazione delle donne a tutte le attività sportive, riducendone di conseguenza le possibilità di successo. A questo proposito si può osservare come le attività sportive e di educazione fisica sono tuttora fortemente differenziate per genere nei programmi scolastici della maggioranza dei paesi occidentali.

 

     Va sottolineato anche che le donne occupano ruoli secondari nelle organizzazioni e istituzioni sportive: sono spesso sottorappresentate nelle posizioni amministrative direttive; gli allenatori, anche di atlete donne, sono più frequentemente uomini; sono ancora prevalentemente maschili i vertici del Comitato Olimpico Internazionale, che decide quali sport ed eventi inserire nel programma olimpico, dei Comitati Olimpici Nazionali, che controllano gli sport olimpici nelle diverse nazioni ‒ come il CONI in Italia ‒, e della Federazione Internazionale dello Sport, che sottopone i nuovi sport olimpici.

 

     Si può poi notare come le stesse atlete professioniste siano meno pagate e meno visibili nei media rispetto ai loro corrispettivi maschili. Vi sono in realtà disparità anche grandi fra i vari sport: se per es. il tennis femminile è ampiamente accettato come attività consona alle donne e riesce ad attirare un folto pubblico di entrambi i sessi, in altre discipline, considerate più maschili, la partecipazione femminile tende a essere guardata con sospetto. Tuttavia si deve registrare un certo cambiamento di mentalità in proposito, con una maggiore accettazione di tutti gli sport al femminile. D'altro canto, la Carta Olimpica contro la discriminazione nello sport condanna le discriminazioni non solo razziali, religiose e politiche, ma anche quelle legate al genere.

 

     I dati statistici indicano, a partire dal secondo dopoguerra, una crescita sostenuta della quota femminile sul totale degli atleti: da poco più dell'8% nel 1948 a oltre il 20% nel 1976 sino a oltre il 36% nel 1996. In generale quindi, anche se lo sport professionale rimane in larga misura una riserva maschile, nell'ambito degli eventi sportivi internazionali la partecipazione delle donne è sempre più evidente e significativa. Si possono comunque segnalare forti variazioni nazionali. Vi sono ancora numerosi paesi, come l'Arabia Saudita, l'Iran e il Pakistan che, spesso per rispettare rigidi dettami religiosi, non permettono alle donne di partecipare alle gare internazionali, e altri, come la Cina o la Germania, le cui squadre olimpiche sono per oltre il 40% composte da donne.

 

     Differenze, sia pur più sfumate, si riscontrano anche fra le nazioni europee: nei paesi scandinavi, per es., lo sport femminile è ampiamente diffuso e guardato con approvazione, mentre nei paesi del Sud Europa, e anche in Italia, la storia dello sport femminile è assai più recente e si può dire che soltanto da poco sono divenuti prevalenti gli atteggiamenti largamente favorevoli. Se ancora sul finire degli anni Ottanta solo un 3,2% delle italiane sperava di diventare un'atleta di successo a fronte di un 8,3% dei ragazzi, già uno studio su un campione di giovani atlete di tutta Italia degli inizi degli anni Ottanta ha mostrato che le ragazze non si sentivano particolarmente discriminate nell'esercizio dell'attività sportiva e che non la consideravano affatto una minaccia per la propria femminilità.  Del resto fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta in Italia la pratica sportiva femminile è andata crescendo in maniera significativa soprattutto fra le giovani: la partecipazione femminile ai Giochi della Gioventù, per es., è stata di 179.000 ragazze nel 1969, di 288.777 nel 1975 e di 1.170.000 nel 1980.