Lo sport può creare speranza

dove prima c'era solo

disperazione. È più potente

dei governi per abbattere

le barriere del razzismo.

Lo sport è capace

di cambiare il mondo.

 Nelson Mandela

 

 

 Non crediate a quelli che

vi dicono che il mondo si

divide tra vincenti e

perdenti, perché il mondo

si divide soprattutto tra

brave e cattive persone,

questa è la divisione

più importante.

Poi tra le cattive persone

ci sono anche dei vincenti,

purtroppo, e tra le brave

persone, purtroppo, ci

sono anche dei perdenti.

 J. Velasco  

 

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l' 8 MARZO

     Il 25 marzo 1911, decine di operaie morirono a New York nell’incendio di una fabbrica di camicie. Almeno 39 erano italiane. 146 donne morte in quello spaventoso incendio in una fabbrica di camicie dimenticato e ricordato invece, per un equivoco storico, come l’atto di origine dell’8 Marzo. Era il pomeriggio di sabato 25 marzo 1911, quando il fuoco attaccò gli ultimi tre piani di un palazzone di Washington Place, nel cuore della metropoli americana. E ancora non è chiarissimo come la data, col passare dei decenni, sia stata «adattata» alla Giornata della Donna.

 

     Ci hanno provato in diversi, a cercare di ripercorrere la storia di questa svista. C’è chi, come le femministe francesi degli anni Cinquanta, dice che la giornata della donna sia stata scelta «per commemorare il 50° anniversario di uno sciopero di lavoratrici tessili, brutalmente represso a New York l’8 marzo del 1857». Chi per ricordare la rivolta pacifista delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo 1917. Chi per celebrare l’8 marzo 1848, quando le donne di New York scesero in piazza per avere i diritti politici. Chi in memoria dell’incendio del 1911 (con la data sfalsata di due settimane e passa) e chi di un fantomatico incendio a Boston nel 1898.

 

     Col risultato che alla fine, a forza di passaparola e di equivoci, ne è uscito un collage, in cui si è mischiato tutto: date, luogo, episodi, numero dei morti, tutto. Con la probabilità che siano stati confusi più incendi (81 nella sola New York e nel solo 1911 in fabbriche di quel tipo) compreso uno avvenuto effettivamente l’8 marzo (1908) alle scuole di Collingwood in cui erano morti 173 bambini e due insegnanti. Per non dire del caos su chi, come e quando propose per primo la fatidica data.

 

     Certo è che, fosse anche falso il collegamento storico, non c’è episodio nella storia delle donne più adatto a segnare un punto di svolta quanto la catastrofe alla Triangle Waist Company. Le cinquecento ragazze tra i 15 e i 25 anni che lavoravano con un centinaio di uomini e rare colleghe più anziane, negli ultimi tre piani del palazzo, alle dipendenze di Isaac Harris e Max Blanck, facevano infatti una vita infame. Una sessantina di ore di lavoro la settimana (l’anno prima un grande sciopero durato mesi aveva strappato un orario di 52 ore, ma lì non era applicato), straordinari sottopagati, spazi ridotti, sorveglianza feroce.

 

     Come accade con certi contratti anomali ancora oggi, i padroni avevano infatti affidato tutto, con una specie di subappalto interno, a una rete di caporali ciascuno dei quali gestiva e pagava sette operaie, che faceva marciare a ritmi elevatissimi. Incidenti sul lavoro a catena. Tutele sindacali zero. Porte sbarrate dall’esterno perché le ragazze non si allontanassero. Il posto giusto per gli ultimi degli ultimi.

 

     Mancavano venti minuti alle cinque del pomeriggio e ne mancavano solo altri cinque e tutte le lavoratrici della camiceria si sarebbero alzate per tornare a casa, a Brooklyn. Gli impiegati degli altri uffici del palazzo se n’erano andati a mezzogiorno. Come fosse partita la prima fiammata, avrebbe ricostruito il giorno dopo il Daily Telegraph ripreso dal Corriere della Sera, non si sa. Ma in pochi istanti il fuoco attaccò i mucchi di stoffa dilagando per l’ottavo piano e avventandosi sul nono e sul decimo. Fu l’inferno. Le ragazze cercarono di scendere per la scala anti-incendio ma era troppo leggera e cedette di colpo, mentre le fuggitive piombavano. Alcune riuscirono a raggiungere l’ascensore, che per un po’ andò su e giù portando in salvo alcune decine di ragazze, poi cedette di schianto: nella tromba, a fiamme domate, sarebbero stati trovati una trentina di corpi.

 

     Fu allora che New York assistette, col cuore in gola, a decine di scene terribili. «La folla da sotto urlava: “Non saltare!”», scrisse il New York Times. «Ma le alternative erano solo due: saltare o morire bruciati. E hanno cominciato a cadere i corpi». Tanti che «i pompieri non potevano avvicinarsi con i mezzi perché nella strada c’erano mucchi di cadaveri». «A una finestra del nono piano vedemmo apparire un uomo e una donna. Ella baciò l’uomo che poi la lanciò nel vuoto e la seguì immediatamente». «Due bambine, due sorelle, precipitarono prese per la mano; vennero separate durante il volo ma raggiunsero il pavimento nello stesso istante, entrambe morte». Forse erano Rosaria e Lucia Maltese, forse Bettina e Francesca Miale, forse Serafina e Sara Saracino…

 

     Erano centinaia, le ragazze e le bambine italiane che lavoravano lì, sfruttate da quei carnefici. Centinaia. E almeno 39 identificate («da un anello, da un frammento di scarpa») più dieci ufficialmente disperse, videro finire così il loro sogno americano. I loro assassini, al processo, vennero assolti. L’8 marzo, dopo tante rimozioni, ricordiamoci anche di loro.

 

la violenza sulle Donne

     Sono troppe in Italia ogni anno le vittime della violenza sulle donne, un fenomeno che sembra crescere a dismisura e che nemmeno le associazioni e le organizzazioni impegnate nella prevenzione e nell'aiuto alle donne vittime di abusi, nonostante l'impegno costante, riescono a debellare, forse perché non abbastanza supportate dalle istituzioni il cui compromesso con questa causa risulta ancora insufficiente. 

 

     Il fenomeno della violenza maschile sulle donne è un argomento molto importante e delicato, considerato erroneamente come lontano, come qualcosa che ormai non ci riguarda più. Basta pensare che in Italia, fino a non molti anni fa, l'uomo che uccideva la moglie o la fidanzata "per gelosia" poteva contare su una attenuante giuridica: il movente "d'onore", grazie al quale se la cavava con pochi anni di prigione. Una vergogna che affonda le sue radici in un’eredità culturale arcaica e, purtroppo, ancora attiva: la femmina come proprietà del maschio.

 

     Ancora oggi le stragi di violenza maschile sulla donna vengono codificate dalla cronaca con espressioni tipo “omicidio passionale”, “omicidio d’amore”, “raptus”, “momento di gelosia”, quasi a testimoniare il bisogno di dare una giustificazione a qualcosa che è in realtà mostruoso. Ma cosa si può fare per contrastare questo terribile e crescente fenomeno radicato nella nostra cultura? Qualcosa è stato fatto, negli ultimi tempi, oltre alla nascita dei Centri anti-violenza, dotati spesso anche di case-rifugio, in Italia sono stati istituiti corsi di formazione, mentre in tutto l’Occidente è stato introdotto il reato di “femminicidio”, con il quale si tenta di far passare il messaggio che uccidere una persona perché ci si ritiene proprietari del suo corpo, della sua vita, della sua libertà, è un'aggravante giuridica, e non più un’attenuante.

 

     La cronaca nera è purtroppo densa di eventi criminosi incentrati sulla relazione di coppia, dove “l’amore” è teatro di violenza e di aggressioni, che comportano la lesione fisica e morale della vittima, fino all’estrema conseguenza di un omicidio. “Amore” e crimine sono sempre più legati: nel 99% dei casi, la dinamica vede l’uomo come autore del delitto, per un “raptus” o con premeditazione.

 

     E una delle cause è da ricercare nel senso insano della “gelosia”, che è ancora l’elemento scatenante in molte delle vicende legate alla violenza di genere. Non parliamo di quella gelosia che, ordinariamente, caratterizza il rapporto degli innamorati e che, comunque, bisogna imparare a gestire; parliamo di un elemento patologico, della morbosità della gelosia, cioè del “senso del possesso”, l’idea appunto di poter possedere un’altra persona come se fosse una cosa, un oggetto senza una propria libera identità. 

 

     La violenza ai danni delle donne può manifestarsi in svariati modi: nell’abuso “emozionale”, in quello “psicologico”, nella violenza sessuale e fisica lesiva a qualsiasi grado, e che spesso avviene all’interno delle mura domestiche.  Il fenomeno della violenza domestica è caratterizzato da una serie distinta di azioni di prepotenza, di coercizione economica e psicologica che hanno luogo all'interno di una relazione intima attuale o passata. Tutte queste azioni comportano un danno sia di natura fisica, sia di ordine psicologico/esistenziale. 

 

     La violenza psicologica, alla base di quello che diventerà poi brutalità fisica vera e propria, comprende una serie di atteggiamenti intimidatori, minacciosi e denigratori, o tattiche di isolamento da parte del partner: ricatti, insulti verbali, svalutazioni ripetute, denigrazioni, rifiuto, isolamento, terrore, limitazione dell'espressione personale. Le donne esposte a tali abusi perdono la stima di sé e sviluppano seri danni sotto il profilo psicologico. In questi casi la donna, pur essendo vittima, si colpevolizza sentendosi responsabile di quello che avviene, anche perché questo è ciò che il “lui” abusante le fa credere.

 

     I dati sulla violenza domestica, o violenza di genere, sono poco attendibili perché i maltrattamenti rappresentano uno dei reati con una elevatissima percentuale di casi sconosciuti alle autorità giudiziarie: le vittime molto spesso non sporgono denuncia/querela perché si sentono in colpa e hanno paura per sé e per le ripercussioni sui figli, o perché hanno poca fiducia nelle forze dell'ordine, o, ancora, perché ritengono che quanto accaduto sia una questione privata e che va tenuta nascosta. Fino a circa un decennio fa, in Italia, i processi per maltrattamento venivano celebrati di rado, o per mancanza di indizi, o perché la vittima spesso non voleva più rendere testimonianza e le prove venivano ritenute insufficienti. Ora, grazie alla sensibilità degli operatori, la situazione sta pian piano cambiando. 

 

     Ma la maniera più efficace e importante per affrontare e risolvere questo orribile problema, sta nell’educazione delle giovani generazioni. Superare gli stereotipi tra ragazze e ragazzi, educare al rispetto della persona, al sacro valore della libertà individuale, alla gestione dei sentimenti. È uno degli obiettivi prioritari che il mondo della Scuola e le agenzie educative hanno nel presente e negli anni a venire, per sconfiggere finalmente questa ignobile piaga della nostra società.