Lo sport può creare speranza

dove prima c'era solo

disperazione. È più potente

dei governi per abbattere

le barriere del razzismo.

Lo sport è capace

di cambiare il mondo.

 Nelson Mandela

 

 

 Non crediate a quelli che

vi dicono che il mondo si

divide tra vincenti e

perdenti, perché il mondo

si divide soprattutto tra

brave e cattive persone,

questa è la divisione

più importante.

Poi tra le cattive persone

ci sono anche dei vincenti,

purtroppo, e tra le brave

persone, purtroppo, ci

sono anche dei perdenti.

 J. Velasco  

 

scrivi

 

 

la GUERRA DEI BALCANI (ex-Jugoslavia)

     Dopo quasi mezzo secolo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, negli anni ‘90 il conflitto jugoslavo ha riportato in Europa lo spettro della guerra in tutta la sua orribile crudeltà. Questo scontro ha avuto luogo in un’epoca in cui la tecnologia e i mezzi di comunicazione avevano già raggiunto un alto livello di sviluppo: perciò fu una delle prime “guerre mediatiche”, documentata quasi in ogni suo momento. 

 

     Tuttavia questi avvenimenti sembrano ormai quasi cancellati dalla memoria pubblica come se fossero parte di un passato lontano dal nostro presente. Non è un caso che il conflitto si sia sviluppato all’interno di quest’area geografica: la presenza infatti di numerose e diverse etnie che convivevano l’una accanto all’altra (“microcosmo jugoslavo”), ha comportato gravi tensioni, pilotate senza scrupoli da chi aveva interessi molto lontani dalla convivenza tra i popoli. Esse furono dovute in parte anche alla ripartizione del territorio che, allora come oggi, non rispecchia la suddivisione tra i vari gruppi etnici. 

Antefatto

     La Jugoslavia era costituita da sei stati: Croazia, Serbia, Bosnia-Herzegovina, Macedonia, Montenegro, Slovenia più le province serbe del Kosovo e di Vojvodina. La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, istituita (anche se con altro nome) il 29 novembre 1943 dal maresciallo Tito, ebbe diversi fattori di coesione, tra cui la minaccia costante dell’URSS, il carisma del capo di stato e un diffuso benessere comune. 

 

     Ma negli anni Ottanta la morte di Tito, lo scioglimento dell’Unione Sovietica, il conseguente crollo del muro di Berlino e un improvviso squilibrio economico, diedero inizio alla decadenza della Jugoslavia. Ciò causò una perdita di potere da parte del governo centrale. In particolare, il Partito Comunista al potere subì il contraccolpo della caduta del muro di Berlino: la Lega dei Comunisti fu sciolta, e si indissero di elezioni democratiche, che tuttavia non sortirono l’effetto sperato. Infatti, di lì a poco, numerosi stati avrebbero dichiarato la propria indipendenza dalla Federazione Jugoslava.

Guerra in Slovenia e Croazia

     Il primo stato a separarsi dalla Federazione Socialista fu, nel 1991, la Slovenia, che creò proprie istituzioni e una nuova bandiera. Le altre nazioni, in particolare la Serbia, tentarono di ostacolare quest’allontanamento: ebbe così inizio la breve guerra d’indipendenza slovena, detta anche “Guerra dei dieci giorni”. Le truppe dell’esercito jugoslavo si scontrarono con i militari sloveni, ma il conflitto fu risolto velocemente grazie all’accordo di Brioni, con cui la Jugoslavia accettò di fatto l’indipendenza della Slovenia. 

 

     Contemporaneamente anche la Croazia si dichiarò indipendente; il processo fu però più lungo e complicato rispetto a quello sloveno, data la presenza all’interno dello stato di una numerosa componente serba, che premeva affinché la Croazia continuasse a far parte della Federazione. Poiché non si riuscì a risolvere la situazione per via diplomatica, il governo centrale decise di passare alle armi, dando così inizio alla “Guerra serbo-croata”. 

Guerra in Bosnia-Herzegovina

     Mentre le fasi della guerra si succedevano, negli altri stati, in particolare nella confinante Bosnia-Herzegovina, l’atmosfera era tranquilla, nonostante ci fossero già i primi segnali della volontà d’indipendenza e di tensione. La Bosnia-Herzegovina si poteva considerare un “microcosmo jugoslavo”, data la presenza di tre diverse etnie, che si differenziavano nella religione oltre che nei costumi: i croati, cattolici; i serbi, ortodossi; e i bosniaci musulmani. I Paesi confinanti, Serbia e Croazia, storicamente avevano sempre incluso la Bosnia nei loro piani espansionistici (di Grande Serbia o di Grande Croazia), adducendo come pretesto l’unificazione delle due etnie con le proprie nazioni. 

 

     Nel 1990 ebbero luogo le prime elezioni multipartitiche, che videro trionfare i partiti “etnici”, che rappresentavano cioè le diverse etnie presenti in Bosnia: serba, croata e bosniaco-musulmana, i cui rispettivi capi, Karadžić, Kljuić e Izetbegović, si allearono in un accordo anticomunista. Tuttavia, nonostante l’accordo stipulato, furono attuate azioni di propaganda volte ad accentuare le differenze e le ostilità tra i vari gruppi etnici: ciò anche se in realtà c’erano tanti in Bosnia che si consideravano semplicemente “jugoslavi” (ad esempio i figli di matrimoni misti, che a Sarajevo, capitale della Bosnia, erano il 40%) e si opponevano alla divisione etnica. 

 

     Tra il 29 Febbraio ed il 1 Marzo 1992 si tenne un referendum, in cui la popolazione fu chiamata a decidere riguardo all’indipendenza della Bosnia-Herzegovina. Da questo risultò che più del 90% dei votanti voleva separarsi dalla Jugoslavia; tuttavia solamente il 63% degli aventi diritto si era recato alle urne: i Serbi avevano boicottato la votazione, poiché volevano rimanere parte della Federazione. Il 5 Marzo 1992 venne dichiarata l’ indipendenza, ed il 5 Aprile successivo, a Sarajevo, una folla di migliaia di persone si riunì in una manifestazione pacifista duramente repressa dai nazionalisti serbi già pronti al conflitto. 

 

     Il 6 aprile 1992 l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America riconobbero la Bosnia-Herzegovina come stato indipendente. Contemporaneamente scoppiò la guerra. Subito i Serbi di Bosnia crearono, con il sostegno della Serbia del presidente Milošević, un’istituzione indipendente occupante il 70% circa del territorio, la Repubblica Serba di Bosnia (Republika Srpska di Pale), guidata da Radovan Karadžić. Il braccio armato di Karadžić fu il generale Ratko Mladić: alla fine del conflitto, entrambi saranno accusati di crimini contro l’umanità. Sarajevo fu immediatamente posta sotto assedio e rimase in questa situazione fino al 1995. 

 

     L’assedio di Sarajevo, di ben 1264 giorni, è stato il più lungo di tutta la storia europea, teatro di immane violenza sulla popolazione civile, inerme e affamata, dove i cecchini serbi, appostati sulle alture che circondano la città, sparavano senza scrupoli su chiunque si aggirasse per le strade. Un assedio che ha portato alla morte di più 11 mila cittadini

 

     Nel 1993 anche i Croati, come i Serbi, decisero di creare, all’interno della Bosnia, uno stato indipendente croato; così, incrinandosi i rapporti già precari con i Bosniaci-musulmani, i Croati li aggredirono e il conflitto in Bosnia si espanse ulteriormente, dando origine ad una lotta di “tutti contro tutti”, dove però, è giusto ricordarlo, la popolazione bosniaco-musulmana si trovò a subire più di tutte le altre l’embargo sulle armi e, di conseguenza, non poté in nessun momento difendersi dalle continue violazioni di ogni diritto internazionale: deportazioni, stupri, saccheggi ed esecuzioni sommarie.

 

     L’obiettivo generale consisteva nella distruzione dell’idea di uno stato unito e multiculturale, in modo che le diverse componenti etniche si sentissero sempre più distanti tra loro e si allontanassero sempre di più. Per raggiungere questo scopo i capi militari si servirono dell’urbicidio, termine introdotto appositamente per questa fase della guerra, che consisteva nell’attacco mirato alle città, per distruggerle ed eliminare così il simbolo della convivenza multietnica

 

     Con lo stesso intento si cercò di cancellare in ogni modo il ricordo del passato comune delle varie popolazioni, con la distruzione dei luoghi più simbolici della civiltà multiculturale che aveva caratterizzato nei secoli la Bosnia-Herzegovina. Così il 9 novembre 1993 le armate croate distrussero il Ponte di Mostar, una costruzione di grande importanza storica e culturale, edificato nel XVI secolo. Gli abitanti di Mostar rimasero sconcertati davanti a questo spettacolo orribile, ma non tutti ne furono dispiaciuti: una parte della popolazione accolse con gioia questa notizia; si vedevano già gli effetti della propaganda che mirava all’incremento delle varie diversità culturali. Nello stesso periodo a Sarajevo venne bruciata anche la Biblioteca nazionale, che conteneva preziosi documenti, testimonianza della pacifica convivenza multietnica. 

 

     Durante la guerra che sconvolse questa regione dei Balcani si ebbe uno dei più alti numeri di vittime civili mai registrato in un conflitto armato. Uno dei fattori determinanti per questo massacro fu il processo di pulizia etnica, cacciando o uccidendo le persone di etnia diversa. Perché il lavoro fosse completo, le loro case venivano solitamente rase al suolo o date alle fiamme. Questo sporco lavoro veniva compiuto non solo dai soldati regolari, ma da gruppi di paramilitari estremisti, che non dipendevano dall’esercito ed erano perciò più liberi nel loro orribile operato. Per efferatezza e crudeltà si distinsero i Cetnici serbi e gli Ustascia croati. In questo macabro scenario, si distinse un gruppo serbo in particolare, le “Tigri di Arkan”, il più numeroso e guidato dal leader più spietato e terribile di tutti, Željko Ražnatović (chiamato  appunto “Arkan”, ex leader della tifoseria ultras della Stella Rossa di Belgrado). 

 

     La lista dei crimini commessi da Arkan in Bosnia, tra il 1992 e il 1995, è impressionante e sterminata: quattrocento persone uccise a Bijelina, seicento persone uccise a Brcko, oltre tremila persone uccise a Prijedor, novecento persone uccise a Sanski Most, settecento persone uccise a Cerska, ma la stima delle vittime è ancora provvisorio, perché a tutt’oggi si continuano a trovare fosse comuni con centinaia di resti umani. 

 

     Questa condotta criminale della guerra fece in modo che i 4 milioni di Bosniaci si riducessero alla metà: circa due milioni sono diventati profughi, molte migliaia sono stati internati in campi di concentramento. Il primo e più famoso di tali campi fu quello di Omarska, le cui immagini terribili, pubblicate da giornalisti inglesi, fecero il giro del mondo provocandone la chiusura… ma altri ne sorsero dopo. 

La strage di Srebrenica

     Nel Luglio del 1995, poi, le “Tigri di Arkan” aiutarono Ratko Mladic nelle atrocità del massacro di Srebrenica, uno dei più sanguinosi dalla fine della seconda guerra mondiale. Srebrenica, una piccola città della Bosnia, divenne il teatro del peggior genocidio perpetrato in Europa dopo la tragedia dell’Olocausto nazista. Essa era, insieme a Tuzla, Žepa e Goražde, una delle cosiddette “enclaves”, ovvero cittadine situate in territorio controllato dai Serbi in cui i profughi bosniaco-musulmani si erano rifugiati. Poiché i Serbi le assediavano e le attaccavano, nel 1993 l’ONU le dichiarò aree protette, mandando a presidio i “Caschi blu”. In particolare, il loro compito era smilitarizzare le enclaves (cioè disarmare i bosniaco-musulmani che vi vivevano, perché non tentassero azioni di guerriglia contro i Serbi) e garantire la tregua fra assedianti e assediati. 

 

     L’11 luglio 1995 i Serbi decisero di dare l’assalto finale alle enclaves, cominciando da Srebrenica. A causa del non intervento dei circa 200 “Caschi blu” olandesi, i Serbi penetrarono in città e seminarono il panico tra la popolazione. La popolazione terrorizzata cercò rifugio a Potočari, poco fuori Srebrenica, davanti alla sede dei “Caschi blu” dell’ONU per avere protezione, ma i soldati non fecero nulla per difenderli. Diecimila uomini scapparono nei boschi cercando di raggiungere attraverso le montagne Tuzla, altra città protetta, mentre le donne, i bambini e gli anziani oltre i 70 anni vennero caricati su dei pullman dall’esercito serbo.

 

     Le donne e i bambini più piccoli furono portati in salvo; dei maschi in età da combattenti, la maggior parte fu uccisa, così come la maggior parte dei fuggitivi. Alla fine (15 Luglio) quasi diecimila persone vennero uccise a sangue freddo e gettate in fosse comuni, in quello che sia il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia che la Corte Internazionale di Giustizia hanno definito un genocidio (ossia l’insieme di “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”). 

 

     L’intervento dell’ONU risultò assolutamente fallimentare, perciò si dice che quest’evento abbia decretato la “morte dell’ONU”, incapace di assolvere al dovere della difesa dei diritti umani e, in alcuni casi, addirittura complice degli aguzzini. 

Il difficile processo di pacificazione

     Nel Settembre 1995, la pace arrivò anche per l’intervento diretto degli Stati Uniti, con raid aerei contro le postazioni che assediavano Sarajevo. Gli accordi di Dayton, siglati tra il 22 Novembre ed il 15 Dicembre 1995, posero fine al massacro in Bosnia-Herzegovina. Ai negoziati di pace, tenutisi a Dayton in Ohio, presero parte i capi di stato delle nazioni coinvolte nel conflitto: Slobodan Milošević, presidente della Serbia, Franjo Tuđman, presidente della Croazia, e Alija Izetbegović, presidente della Bosnia-Herzegovina. Basati sul rispetto della pace tra le diverse etnie, gli accordi sancirono la nascita di una nuova Bosnia, in cui i territori erano però spartiti secondo i principi ispiratori della guerra: esistono una Repubblica Serba e una Federazione Croato-Bosniaca, divisa in dieci cantoni, abitati in parte da croati e in parte da musulmani; solo in un cantone si ha popolazione “veramente” mista. 

 

     Si può dire che dal punto di vista istituzionale la Bosnia-Herzegovina nata a Dayton riconosce i principi che hanno portato alla guerra, e mostra tristemente il successo effettivo della pulizia etnica. Ad oggi si tenta ancora di accentuare le differenze tra le popolazioni. Gli episodi e le memorie della guerra sono fonte di disaccordi: testimonianze differenti sono fornite dalle varie fazioni, e persino la commemorazione delle proprie vittime può diventare pretesto di provocazioni e rivalità. 

 

     Negli anni Novanta è stato istituito il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, voluto dall’ONU. Molti attori del conflitto e della pulizia etnica sono stati processati, anche se l’azione del Tribunale è spesso oggetto di controversie. Tra il 2016 e il 2017, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, rispettivamente l'ideologo e il braccio esecutore di innumerevoli episodi di violenza sulla popolazione bosniaco-musulmana, sono stati ritenuti responsabili e condannati dal Tribunale Internazionale. Il primo a 40 anni di carcere per genocidio e crimini di lesa umanità, ed il secondo al carcere a vita per l'efferatezza criminale durante i tre anni e mezzo dell'assedio di Sarajevo e per la strage di Srebrenica. Ma all’interno dello Stato persistono ancora ondate di nazionalismo, eredità di un conflitto che ha radici molto profonde. 

 

     Nei Paesi occidentali si ha la tendenza a considerare i Balcani come parte di un mondo primitivo, lontano dalla nostra cultura. Forse è proprio questo il motivo per cui quell’orribile conflitto è stato quasi cancellato dalla memoria pubblica: la Bosnia-Herzegovina, la Jugoslavia, i Balcani nel loro complesso sembrano distanti dal nostro mondo, ma in realtà sono più vicini di quanto crediamo. Non è poi così difficile manipolare le opinioni delle persone in nome del nazionalismo e della religione, creando violenza e pregiudizi, e sarebbe bene che anche in questo caso la Memoria non si perdesse mai.